Federico se ne va.

da | Dic 23, 2019 | Primo Piano

Conosco Federico dai tempi dell’Università. Lavora in un ospedale di provincia, di quelli che a volte ti accolgono come una famiglia generosa, a volte ti abbandonano come un carico pesante.
Lui, l’hanno abbandonato.
Federico è un ortopedico, un ottimo ortopedico, di quelli che ti rallegri quando è di turno. È competente e comunicativo. Vive vicino all’ospedale. Ha 47 anni, un figlio.
E ieri ha presentato le dimissioni.
Nella mente di un piemontese, licenziarsi non è contemplato. Un posto di dirigente medico in un ospedale pubblico, a tempo indeterminato poi, significa sicurezza e prestigio. Insomma, futuro. Noi non siamo mica americani, siamo piemontesi, detti i bogia-nen (non ti muovere). Noi non ci licenziamo.
E lui invece sì. Lui si è licenziato.
Quando lo incontro ha il viso rilassato, come quando oramai hai saltato il burrone che tanto ti spaventava ed il salto è roba passata.
“Sai – mi racconta – “non avrei mai pensato di potermi dimettere, dall’ospedale dove ambivo lavorare, dal mio lavoro per cui ho studiato, e invece, dovevo fare turni su più ospedali, seguire per un solo giorno pazienti che non avevo operato e che poi non avrei visto più”. La famosa continuità assistenziale: una chimera.
“In reparto eravamo rimasti in pochi. Il gruppo si era progressivamente sfaldato ed il pensionamento del primario, mai sostituito, ha dato il colpo di grazia. La tensione tra di noi era palpabile”.
“Le notti in reperibilità erano sempre più numerose. Ad ogni chiamata un’eterna polemica, anche perché il mattino dopo devi essere presente alle 7.30 per operare. Ero stremato, nel fisico ma soprattutto nel morale”.
“Perché non c’è più rispetto“- in che senso? chiedo – “non c’ è più rispetto verso il medico, non vali niente, non vieni considerato, e devi erogare, erogare, erogare “.
Ricordo che c’era stata una denuncia per un malato caduto da una barella, finita in nulla. In quel periodo il suo viso era spettrale.
“Dovevamo operare quasi solo fratture di femore. Essendo gli interventi monitorati dal programma nazionale esiti, entro 48 ore il paziente va in sala. Anche se a volte sarebbe stato meglio aspettare per stabilizzarlo un po’. Anche se nell’ospedale piccolo in certe ore mancano i consulenti. Via, in sala. Tutte urgenze, solo urgenze. La chirurgia di elezione non esisteva più. E così io non potevo crescere, migliorare le mie competenze”.
“Io ho un figlio – continua – che in questi anni ho trascurato, e ho speso più di metà stipendio in babysitter”.
E fuori? “Fuori ho ricevuto molte offerte, mi aspetta un lavoro nel privato che mi consente di fare attività specialistica, potrò formarmi, non faccio notti, insomma mi va bene. Mi va meglio” precisa. Speriamo, penso. Almeno riuscirà finalmente a fare un Natale a casa.
“Ma sai la cosa peggiore?” – ancora una cosa peggiore! – “Quando sono andato in Direzione a comunicare la mia decisione non un cenno di dispiacere, di comprensione. Non mi hanno chiesto il perché o cosa si potesse migliorare”.
Si, gli addii senza lacrime sono davvero tristi, troppo tristi.
Quando lo saluto, i miei pensieri volano dentro la nube di fiato, nell’aria gelida di dicembre.
Si rincorrono domande e risposte, rabbia e malinconia. Dovrebbero chiedergli scusa. Tutti coloro che hanno governato e governano questo sistema sanitario regionale e nazionale, dovrebbero chiedergli scusa. A lui e a tutti i suoi pazienti, che ora avranno un servizio ridotto, perché non c’è nessuno che partecipi al concorso per sostituirlo. Il sistema pubblico ha perso un ottimo professionista. E ne perderà altri, come lui. Magari lo recupererà convenzionandosi, per poter coprire i turni, con il privato accreditato dove Federico andrà a lavorare.
Gli auguro che la sua strada sia ricca di esperienza e soddisfazione, ma auguro a me stessa, ai pazienti e al sistema che un giorno cambi idea, e torni in un ospedale pubblico più accogliente, più rispettoso e gratificante.

Chiara Rivetti, Segretaria Anaao Piemonte

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